Nel marketing c’è qualcosa che va oltre il posizionamento di marca, che supera i concetti di promessa e reason why.
C’è qualcosa di più profondo, che parla all’anima delle persone. Qualcosa che riesce ad ispirare gli altri all’azione: la brand purpose.
Diversi autori si sono soffermati sul tema dello scopo aziendale, da Simon Sinek con il suo “Golden Circle”, a Salim Ismail con il concetto di Massive Trasformative Purpose (MTP), per finire a Philip Kotler con il libro “Brand Activism”.
Hanno raccontato dell’importanza per le aziende di avere dei valori, un sistema di credenze per ottenere clienti e collaboratori fedeli e motivati.
Ma perché avere una “brand purpose” riesce a smuovere le persone? Ad ingaggiare?
Alla base di questo ragionamento c’è un desiderio umano ancestrale.
C’è qualcosa, infatti, di cui noi essere umani abbiamo bisogno per il nostro benessere e che non cesseremo mai di desiderare: senso di appartenenza, comunità, connessione, la sensazione di una missione più grande dei nostri immediati desideri parcellizzati.
L’essere umano infatti è un cercatore di significato, non è mosso dal bisogno, ma dal desiderio di senso. Lo psichiatra viennese Viktor Frankl sosteneva che noi essere umani abbiamo bisogno di essere orientati verso qualcosa che ci trascende, verso qualcosa che sta al di sopra di noi stessi, un significato da realizzare, una missione più grande di noi in cui credere.
La felicità, infatti, non è altro che la manifestazione laterale dell’aver raggiunto il proprio scopo.
Ecco perché i brand che ci fanno sentire parte di un progetto più grande – e non un semplice cliente che sta facendo un buon affare – vincono.
Un po’ di dati per capire l’importanza del purpose aziendale oggi.
Secondo la ricerca “Global Consumer Pulse Research” di Accenture Strategy, il 63% dei Millennials afferma che lo scopo principale delle imprese dovrebbe essere migliorare la società anziché generare profitto. Un altro studio, della Society for Human Resource Management, ci dice che il 94% dei Millennials desidera utilizzare le proprie competenze a beneficio di una causa in cui credono.
Che cosa ci dicono questi dati? Che dovremmo trasformare le nostre aziende in ONG? Significa che il profitto non è più qualcosa a cui tendere?
Certo che no. Questi numeri ci fanno capire che le persone (clienti e dipendenti) cercano aziende che abbiano uno scopo forte e una serie di valori in cui rispecchiarsi. C’è un modo diverso, infatti, per fare profitto: creare un impatto positivo sulla società, che ha, come conseguenza, la generazione di profitto.
Più dai, più hai, è una delle mie frasi preferite. Credo che il successo di un’azienda sia semplicemente un effetto collaterale di qualcosa di più significativo. Il successo dipende da quanto valore riesci a generare, da quanto riesci ad impattare positivamente sulla vita delle persone.
Sforziamoci di trovare quindi il ruolo che la nostra azienda dovrebbe avere nella società e non soltanto la posizione da occupare nel mercato.
Perché è importante che le aziende abbiano un ruolo nella nostra società?
Trovare lo scopo di un’azienda non è un’attività semplice. Molto spesso si cade nell’errore di cercare di copiare un Why di un’altra azienda. In questo modo non facciamo altro che attaccare in maniera posticcia il significato ad un brand. I risultati saranno inconsistenti.
Per trovare davvero la propria “essenza” è necessario mettere in pratica un’analisi esistenziale, andare in profondità, mettere in pratica un meccanismo di ricerca all’interno dell’azienda.
Si potrebbe iniziare rispondendo a queste semplici domande:
- Perché la tua azienda esiste?
- In che cosa crede?
- Cosa vuole combattere?
- Qual è il cambiamento che vuole portare nel mondo?
Quando penso allo scopo e ai valori aziendali mi piace riprendere e riformulare la teoria della ghianda di James Hillman: ogni impresa ha un seme unico e distintivo rispetto a tutte le altre e chi si occupa di marketing ha l’obiettivo di farlo emergere e di farlo fiorire. Non dobbiamo quindi fare altro che capire il tipo di seme che siamo e realizzare la sua unica e vera natura.
Per fare questo è necessario “educare” le aziende alla “vocazione”. Educare significa «tirare fuori ciò che è in profondità». I valori, infatti, non si trovano nella testa, ma nel cuore: si tratta di sintonizzarsi con se stessi e sentire cosa ci fa emozionare, cosa ci accende, cosa ci fa avvertire che vale la pena continuare ad “alzare la saracinesca” ogni mattina.
Italia Caput Mundi
Senza nulla togliere a Sinek e a Kotler, penso che il pioniere del “purpose” ce lo abbiamo proprio dentro casa, ma come sempre non abbiamo avuto la giusta considerazione.
Negli anni ’60 in uno dei suoi discorsi, Adriano Olivetti, pronunciava questa frase:
«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?»
L’imprenditore rosso, così veniva chiamato Olivetti all’epoca, non si è limitato soltanto ad idealizzare questo concetto, ma lo ha anche reso concreto nelle sue “fabbriche di bene”, nelle sue “fabbriche comunitarie” .
Domandati come avere persone fedeli sia dentro che fuori all’azienda e migliorare al tempo stesso la società in cui viviamo.
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